Il fegato di Prometeo
di Jiří Kolář
Traduzione e cura di Maria Elena Cantarello
Introduzione di Vladimír Karfík
Formato: 11,5 x 19,5
256 pagine
Prezzo: € 12,75
Sconto -15% (Prezzo di copertina € 15,00)
Anno di pubblicazione: 2009
ISBN: 978-88-902274-5-5
Il libro
Frammenti di diario, poesie, brani altrui accostati in una intercalage verbale compongono Il fegato di Prometeo, cruda testimonianza della realtà cecoslovacca degli anni Cinquanta, catapultata dalle atrocità della guerra in un orrore ancora più grande, in cui persino la parola sembra perdere ogni senso, soffocata dagli altisonanti sproloqui di regime. Alle immagini dei campi di sterminio nazisti si sovrappone la visione quasi profetica di una società che abdica alla propria dignità in nome di un “radioso avvenire” dove alle persone si chiede solo di chinare il capo. Fra il servilismo degli intellettuali e la quotidiana codardia del singolo, Kolář rivendica alla parola poetica il compito di mantenere in vita ciò che rende umano l’uomo: il coraggio della verità.
Una denuncia lucidissima e spietata che costò al poeta il carcere e l´impossibilità di pubblicare.
L’autore
JIŘÍ KOLÁŘ nasce a Protivín, Boemia meridionale, nel 1914. Falegname per formazione, svolge i più svariati lavori prima di potersi dedicare esclusivamente all´attività letteraria ed artistica.
Debutta nel 1941 con la raccolta di versi Křestný list [Certificato di battesimo] e si impone immediatamente nel panorama letterario praghese. La ricerca della potenzialità poetica della realtà lo conduce progressivamente all’abbandono della parola come mezzo espressivo e allo sviluppo della cosiddetta “poesia visuale”. Nascono cosi le innumerevoli variazioni nell’uso del collage che lo renderanno famoso nel mondo.
Il rifiuto di sottomettersi alla generale mistificazione messa in atto dal regime comunista viene punito con il divieto di pubblicare le sue opere e con il carcere.
Fra i firmatari di Charta 77, nel 1979 il poeta è costretto all’esilio; dal 1980 al 1992 vive a Parigi.
Il ritorno in patria coincide con la pubblicazione integrale delle sue opere e restituisce alla cultura ceca una delle sue pù alte voci morali.
Muore a Praga nel 2002.
[M.C.]
Vedi anche:
Jiří Kolář – artista anche per ragazzi
Recensioni
Tra prosa e poesia il collage di voci del ceco Jirí Kolár
di Claudio Canal
Il Manifesto 26.05.2010> CULTURA & VISIONI > TAGLIO MEDIO
Nato nella Boemia meridionale nel 1914, morto a Praga nel 2002, costretto a dieci anni di esilio, Jiří Kolář è universalmente noto come l’artista dei collages, della disintegrazione del reale tramite slittamento, sovrapposizione, disarticolazione. Un’arte che «allarga la coscienza umana» perché «Fra l’idea/E la realtà/Fra il gesto/E l’atto/Cade l’Ombra». Quando, nel 1950, scrive la raccolta di poesie e prose Il fegato di Prometeo (che uscirà in Canada nel 1985 e a Praga solo nel 1990), siamo in pieno stalinismo cecoslovacco ovvero sotto un’Ombra che non si limita a deplorare le intemperanze poetiche, ma trafigge direttamente i corpi, quello dello storico comunista Záviš Kalandra, impiccato per il suo «trotzkismo», dopo sei anni di internamento nazista, quello di Milada Horáková, giurista, resistente antinazista, anche lei appesa ad una corda politicamente corretta. Da Parigi Paul Éluard plaude alle esecuzioni dei «congiurati sabotatori».
Il libro di Kolář non può naturalmente essere pubblicato e quando il manoscritto anonimo viene trovato nella casa di un amico anche lo sbirro più ottuso leggendo il verso «io mi chiamo Kolář, glielo posso dimostrare» riesce a fare due più due e il poeta finisce in carcere. «Angoscia/ nera angoscia gelata/ cresce in me come un tramonto di novembre/ angoscia della parola viva/ deposta in una bara/ circondata di immagini sacre e fiori/ senza forza senza speranza»: sarà questa deposizione della parola a far deviare l’artista verso una poesia oculare rappresentata dai collages. Kolář abbraccia un silenzio fonetico per dedicarsi alla visualità, con una intuizione più che adeguata ai tempi. Ma nel Fegato di Prometeo, sono ancora le parole a tentarlo, perciò mette in scena un teatro di voci che compongono e scompongono testi e narrazioni altrui (da Thomas Stearns Eliot a Ladislav Klíma, a Zofia Nałkowska), cercando di alimentare una parola che costruisca la realtà piuttosto che ridursi alla sua rappresentazione. Una fabbrica in cui i pezzi vengono modificati, scombinati, riprodotti incessantemente da altre mani, da altre voci in un collage, confrontage, intercalage, senza fine. Perché il muro che ha di fronte è lo stalinismo dell’anima, oltre quello tangibile dei corpi ingabbiati e fucilati, generatore di menzogna universale, di falsità irriducibili.
Forse questo libro sarebbe piaciuto a Pier Paolo Pasolini, non solo per il missaggio dei linguaggi alti, bassi, laterali, ma per la coscienza che mentire non è più scelta, ma condizione dell’esistere: «Tutti pensano al genere umano e nessuno considera l’uomo…tutti parlano d’amore e nessuno sa più che cosa significano le parole: Buon giorno o Buona notte…tutti lavorano alla più grande opera della storia e nessuno sa quello che fa…tutti avanzano verso la radiosa meta del futuro e nessuno sa che strada percorre…». Leggendo Il fegato di Prometeo si arriva a pensare che la disintegrazione della realtà e del linguaggio che Kolář esibisce sia collocato in una memoria evaporata, in un freddo passato. Invece, come in un album per bambini, ci sono parti da colorare: «La democrazia non ha entusiasti, fanatici, veri soldati, la democrazia ha persone, e a questo modo ciò potrebbe significare la sua rovina…Nella democrazia crescono persone amareggiate, passive, titubanti, perché credono più alla realtà che al sogno…». Dove abbiamo messo i colori? viene da chiedersi. «Dammi il potere del sorriso muto dell’albero in primavera» così riusciremo a rispondere in modo inatteso alla tua domanda necessaria: «Gli uomini sono ancora esseri umani?».